L’aspetto più interessante, a mio avviso, della realtà virtuale, è identificato ormai universalmente con il termine inglese presence, presenza.
Viene sostanzialmente definita presence la sensazione soggettiva che un individuo prova quando, interagendo con un ambiente virtuale, si sente realmente immerso in esso. La presence è tanto maggiore quanto minore è la discrepanza percepita tra ciò che si vede e ciò che si percepisce come qui ed ora.

Non ha nulla a che fare con il fotorealismo di ciò che si vede, quanto con la percezione dello spazio circostante come uno spazio tridimensionale reale, e del proprio io virtuale come di sè stessi in quello stesso spazio.
Esemplifichiamo: utilizzando un hardware sufficientemente avanzato, posso provare una presence particolarmente convincente anche con una griglia sul pavimento, un cubo davanti a me e le mie mani che interagiscono con lo spazio vuoto. Ma in termini umani, se prescindo dalla realtà virtuale, come traslo il concetto di presence nel quotidiano?

Ecco la parte più olistica del ragionamento, ma anche la più morbosamente interessante.
Molte filosofie, dalle più esoteriche alle più “fricchettone”, concordano nel definire il più grande problema dell’uomo occidentale, oggi: la mancanza, o la perdita rispetto a una “età dell’oro” non meglio definita di una ancor meno definita antichità, di consapevolezza. Consapevolezza di sé, consapevolezza dello spazio circostante, consapevolezza di essere una parte del tutto, e di un sacco di altre declinazioni di questi concetti base. Alcuni si spingono fino a sostenere che siamo consapevoli solo quando moriamo o quando andiamo in bagno.

Le più recenti pratiche di Mindfulness fanno largo uso del concetto di presenza mentale, soprattutto in rapporto al “qui ed ora” terapeutico, che riduce quel senso di scollamento dal presente che causa disagio.

Tutto molto bello e tutto molto Zen, ma di cosa parlano, nel concreto, quando parlano di consapevolezza?
Consapevolezza reale e persistente di avere due gambe, due braccia. Consapevolezza di muoverci in questo spazio, qui ed ora. Vi ricorda qualcosa?
Negli eventi ai quali abbiamo partecipato come azienda, ai quali abbiamo portato headset VR e li abbiamo messi sugli occhi di molte persone per la prima volta nella loro vita, fossero essi bambini, adulti o anziani, c’è un elemento comune a tutti, una reazione atavica e totalmente istintiva: lo stupore di vedere le proprie “mani virtuali”, o di riconoscere un corpo virtuale là dove, per sovrapposizione perfetta di movimenti, per corrispondenza 1:1 di posizione assoluta, non può essere che il loro corpo reale. Di percepire uno spazio che si sovrappone perfettamente a quello dove erano pochi istanti prima, ma con una consapevolezza nuova e paradossalmente maggiore.

Loro sono lì in quell’istante, e per un tempo sufficientemente lungo e soggettivamente variabile, ne sono perfettamente consapevoli.
Lungi da me il sacralizzare uno strumento: non considererei sacra una chiave del 12 se fossi un meccanico, figuriamoci un headset per realtà virtuale. Tuttavia, lo ritengo uno strumento di una potenza nuova ed enorme, che vale la pena esplorare in tutte le sue infinite potenzialità. Altri prima di me hanno già parlato di numeri, percentuali di dati appresi tramite VR o AR rispetto all’apprendimento tradizionale, livelli di engagement, soglie di attenzione… non li ripeterò, se vi va potete trovarli un po’ ovunque. Credo sia più interessante spostare l’attenzione sull’aspetto qualitativo dell’esperienza e del suo tramite.
Meditate, gente. Meditate…

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